Donne, la faccia triste della Cina?

donne cinesiPiù o meno la metà del quasi miliardo e mezzo di abitanti della Cina è costituita da donne. Nell’Impero Celeste delle grandi tradizioni filosofiche, l’economia (ormai di mercato) più imponente al mondo, però, le donne rappresentano ancora l’anello più debole della catena, perché doppiamente vessate: come cittadine di uno stato repressivo e come “femmine” in una cultura tradizionalmente maschilista.
Tra queste donne, solamente una piccola percentuale ha goduto dei benefici economici del boom dovuto all’apertura dei mercati e della cosiddetta modernizzazione dei costumi sociali e familiari. Anzi, paradossalmente, la condizione femminile in Cina, presa in valore assoluto, appare addirittura peggiorata: a fronte dei timidi miglioramenti per le donne delle città, si registra un irrigidimento delle già pessime condizioni economico – sociali delle donne delle aree rurali.
E ciò perché le politiche riguardanti la donna in sé non sono mai cambiate. Ciò di cui si parla è il vero volto delle politiche demografiche imposte da Pechino. La politica familiare obbligatoria, infatti, si abbatte più sulle donne e sulle bambine che sugli uomini. Il governo della Repubblica Popolare Cinese afferma con orgoglio che, dall’entrata in vigore di questo pacchetto di misure anti-nascite (la “Legge eugenetica e protezione della salute”, conosciuta come “Legge del figlio minore”), sono stati evitati 300 milioni di nuovi nati.
Già durante gli anni Settanta, le istituzioni centrali iniziarono a considerare la cronica sovrappopolazione come un ostacolo alla crescita ed allo sviluppo economico del Paese, ma Mao era fortemente contrario ad imporre un numero preciso di figli per donna, data la tradizionale cultura confuciana delle famiglie numerose. Si varò così la prima campagna di sensibilizzazione delle donne: il “Wan Xi Shao”, la cui traduzione letterale è “matrimonio in età più avanzata, più tempo tra un figlio e l’altro e meno figli”. Ma si trattava di una semplice opera educativa, che non raggiungeva l’agognato scopo della crescita zero. L’anno della “svolta” fu il 1979, quando Deng Xiao Ping decise di introdurre la politica del figlio unico a livello legislativo nazionale: il divieto per le donne, in parole povere, di avere più di un figlio veniva sancito da tutto un insieme di norme legali. Nel 1981, addirittura, fu creato un ministero della Pianificazione Familiare e nel 2002 la politica del figlio unico è divenuta legge dello Stato.
Ciò significò allora, e continua a significare oggi, divieto di conoscere il sesso del nascituro, aborti spontanei o forzati, infanticidi, sparizioni e non registrazione delle bambine. Ancora una volta, infatti, le donne sono le più tartassate. Perché dietro la facciata legale di una (quantomeno opinabile) moralità o necessarietà di tale legge, c’è tutta la serie di corollari drammatici che essa comporta: non c’è solo l’elementare diritto di ogni donna di mettere al mondo quanti figli desideri anche in barba alla povertà, ma anche l’abuso fisico e psicologico delle pratiche utilizzate per imporre il rispetto di tale legge. E, di fatto, una distinzione per censo, dato che il secondo figlio può essere “legalizzato” attraverso il pagamento di multe salatissime, cui il cinese medio non può far fronte. E l’antica credenza popolare della “femmina che significa sventura per tre generazioni” è quanto mai attuale, dal momento che (soprattutto nelle campagne, ma non solo) la necessità di un figlio maschio continua ad essere avvertita come prioritaria, per i “costi” che una famiglia deve sostenere per far sposare una figlia femmina, perché non si considera necessario che studi e, di conseguenza, non sarà mai lei a poter aumentare la ricchezza del nucleo familiare d’origine. Ella è, pertanto, solo “un maschio in meno” a lavorare, in campagna o in città, nonostante il lavoro femminile sia invece una delle principali fonti del prodotto interno cinese.
Ancora una volta, dunque, sono le donne a dover sostenere il peso maggiore delle misure imposte da Pechino. L’attuazione concreta della politica familiare si è tradotta, di fatto, in una sempre maggiore discriminazione di genere: dall’aborto selettivo, alla scomparsa delle bambine, per arrivare addirittura all’infanticidio, passando per il grande e gravissimo fenomeno delle bambine non registrate all’anagrafe e tenute dunque nascoste ai margini della vita legale. Stimano Amnesty International e Human Rights Watch, che sarebbero circa mezzo miliardo, ad oggi, le bambine (molte delle quali ormai adulte) non esistenti per la legge cinese: ciò significa niente istruzione, niente cure sanitarie, nessun diritto da far valere, nessuna possibilità di firmare un contratto o di contrarre un matrimonio, niente patente di guida o salario. In pratica, nessuna opportunità di vita per queste donne letteralmente invisibili, in quanto ufficialmente “mai nate”. Persino il tentativo, inizialmente ben visto dalle organizzazioni femminili, di limitare queste pratiche con la possibilità di avere un secondo figlio nelle aree rurali più depresse, qualora il primogenito sia femmina o portatore di handicap, non ha sortito effetti positivi: scompaiono o vengono uccise meno bambine (ma solo se hanno la fortuna di nascere per prime), ma resta lo squilibrio dei sessi e viene inoltre fomentato il pregiudizio sociale e psicologico nei confronti delle donne.
Ed anche per le donne formalmente esistenti, i diritti, i cui confini in Cina sono già così labili, sono meno che per gli uomini, nonostante formalmente la legge riconosca le pari opportunità. Lo denunciano da sempre le organizzazioni di donne cinesi residenti all’estero, dove hanno ovviamente più libertà di parola. Così, infatti, afferma Women’s Rights Without Frontiers dagli Stati Uniti, ma anche l’importantissima Women of China, organizzazione femminile (e in un certo senso femminista) che lotta con coraggio per i diritti delle donne cinesi dall’interno della Cina stessa. Ad esempio, secondo uno studio dell’Accademia delle scienze sociali, le operaie cinesi lavorano oltre dodici ore al giorno senza il minimo diritto (come i loro colleghi maschi), ma percepiscono un quinto del salario ricevuto dagli uomini. Ad un livello ancora più basso, poi, le lavoratrici migranti, che vivono in condizioni di schiavitù, senza nessuna connessione con il resto della società.
E, in generale, le donne lavoratrici, anche nelle città, non sono ancora socialmente ben accette, a meno che non si tratti di lavoro per la famiglia. La cosiddetta “donna in carriera” (per quanto sia possibile per una donna far carriera in Cina) è talmente mal vista che, molto spesso, deve ricorrere ai mercati dei matrimoni per trovare un marito disposto a sposarla, magari vedovo o molto più anziano.
La politica del figlio unico, dunque, è solamente la punta dell’iceberg di un problema che il grande Impero Celeste non potrà continuare a tenere a lungo nascosto sotto il tappeto. Parte della società cinese (sia maschile che femminile) ha ormai raggiunto una certa coscienza sociale ed i confini della Cina sono molto più aperti, in ogni senso: non più solo i cinesi che emigravano e creavano Chinatowns ovunque per non tornare mai più, ma anche cinesi che viaggiano, vedono il mondo e poi tornano in patria, cinesi che studiano, si informano, navigano in Internet e, dunque, cinesi che vogliono che le cose cambino. (fonte: www.atlasweb.it)

Ilaria Melis