Keywan Karimi non sfugge al carcere, appello per la sua libertà

Quinto ed ingiusto giorno di carcere per il regista iraniano Keywan Karimi, che ha iniziato a scontare la sua condanna il 23 novembre scorso nella prigione di Evin, a Teheran, dove lo aspettano un anno di reclusione e 223 frustate.

Da anni associazioni come Iran Human Rights e Amnesty International si battono per la sua libertà, una battaglia della quale in nostro giornale si era fatto portavoce qualche mese fa, ma che è stata tristemente perduta. La condanna di Keywan non è stata revocata, solo ridotta ad un anno di carcere invece di sei, e il cineasta dovrà scontare la sua pena per “offesa alla sacralità islamica” e “relazioni illecite”.

I film di Karimi sono passati per i più importanti festival cinematografici del mondo, da ultima la 73esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, alla quale lui non ha potuto presenziare. Ma non possiamo certo dimenticare che nel 2012 partecipò al Tolfa Short Film Festival, dove intrecciò la sua vita a quella di persone che, come Tina Coppola, ancora si battono per lui e per la sua libertà e che in questi giorni esprimono più forte che mai la propria preoccupazione. È da questa iniziativa che nasce la pagina Facebook “Writing on the City – Graffiti for Keywan Karimi”, che si propone di chiedere la libertà del giovane regista iraniano tramite foto di graffiti raccolte in ogni luogo.

Ad aggravare una condanna assurda, basata su accuse ingiuste, c’è anche il fatto che il processo di Karimi si è sempre tenuto in tempi troppo brevi e con evidenti modalità illecite: non solo dopo il suo arresto Keywan è stato tenuto in isolamento senza accuse e senza la possibilità di contattare un avvocato, ma anche le udienze non hanno mai lasciato abbastanza tempo alla difesa per intervenire. Inoltre l’accusa di “propaganda contro il sistema”, con la quale Karimi è stato arrestato, non si trova nel verdetto finale, in cui invece è stata aggiunta nell’ultima udienza quella di “offesa alla sacralità islamica” derivante dal ritrovamento di un video musicale sul suo hard disk. Ci sembra poi assurdo che l’accusa di “relazioni illecite” gli sia, invece, stata addossata per esser stato sotto lo stesso tetto con una donna che non aveva il capo e il collo coperti e per averle stretto la mano.

I suoi sostenitori non si arrendono e lanciano più forte che mai il loro appello: salviamo Keywan, combattiamo per la libertà di espressione e diffondiamo la sua storia.

Lorenzo Piroli