Un Molière con troppi lazzi e poca anima

teatro TraianoCIVITAVECCHIA – Cosa non si farebbe per non essere ciò che si è? Monsieur Jourdain ad esempio, borghesotto facoltoso, non desidera altro che entrare nel rango dei nobili e, per farlo, cade continuamente nel ridicolo. L’ambitissimo “titolo” vale più di migliaia di Luigi: così Jourdain spende e spande nel tentativo affannoso di elevarsi al rango di quei ‘signori’ che nel frattempo lo sfruttano a loro piacimento. Intanto moglie, figlia e servi di Jourdan, ben più lucidi di lui, ne assecondano la follia tentando di salvare i propri interessi. Con questa comèdie- ballet presentata per la prima volta nel 1670 alla corte del re di Francia, Molière denunciava con impagabile e modernissimo genio satirico il falò delle vanità in cui sono coinvolte tutte le classi sociali, con le loro ossessioni per il successo, la ricchezza esibita o una finta cultura goffamente ostentata. Per raccontare del suo ‘borghese’ che voleva farsi “gentiluomo”, Molière sceglieva il linguaggio composito della comèdie- ballet, con musiche di Jean Baptiste Lully e coreografie di Pierre Beauchamp. Nel corso dell’ultimo secolo questa commedia, come l’opera di Molière in generale, è stata soggetta a frequentissimi adattamenti e riscritture che sceglievano per il racconto universale del ricco che aspira agli alti ranghi ambientazioni sempre diverse. Nella versione presentata ieri al Traiano, Tosca e Massimo Venturiello decidono per uno spostamento dell’ambientazione sostanzialmente geografico: rimanendo pressoché intatta l’epoca di Molière, i personaggi abbandonano il francese “Luigi XIV” per preferirgli la lingua napoletana. La “comèdie française” cede il passo alla “comèdie Italienne”: tra balletti, musiche e canti (i brani originali sono composti da Germano Mazzocchelli), Venturiello e Tosca tentano di restituire le fragranze della tradizione molieriana, pur adattandole ad un gusto tutto partenopeo, più facilmente comprensibile ad un pubblico italiano. L’operazione è chiara: il linguaggio, proprio come in Molière, si riempie di commistioni popolari e scimmiotta i finti lazzi poetici; così come in Molière poi, la musica non è più solo semplice intermezzo, ma si cuce nelle trame del tessuto drammaturgico, rimanendo in tal modo aderente alla storia. Fin qui tutto bene; quello che tuttavia riteniamo manchi totalmente in questo lavoro è una caratteristica fondante l’opera tutta di Molière: l’assoluta aderenza al reale. La grandezza maggiore di Molière risiede in una illuminante capacità di osservazione del mondo che lo circonda, un mondo poi riprodotto sulla scena attraverso una sintesi folgorante e uno spirito tagliente che hanno permesso alle sue opere di arrivare fino a noi, risuonando con incredibile attualità nel nostro oggi. Nel lavoro di Venturiello tutto resta molto superficiale: benché si noti un tentativo di ricerca musicale, così come una vivace orchestrazione attoriale – ogni membro del cast è perfetto nel suo “ruolo” deputato a creare un carattere più che un personaggio – tutto rimane poco approfondito e, a conclusione delle quasi tre ore di spettacolo, avvertiamo netta la sensazione di essere stati in un museo. Di aver assistito ad una rappresentazione di cui è indiscutibile la professionalità di chi la interpreta, ma che resta solo un bell’esercizio, un omaggio alla tradizione a cui si ispira, ma poco vibrante di vita . Troppi pizzi, crinoline e gorgheggi possono essere anche divertenti nel loro eccesso, ma a lungo andare rischiano di offuscare l’esigenza più importante del teatro, un’esigenza che Molière conosceva bene: quella di parlare sempre all’oggi.

Francesca Montanino