“L’Americah”. Non è una città per donne?

Con l’avvicinarsi delle elezioni amministrative nella nostra città, voglio riprendere una riflessione, di qualche mese fa, sulla necessità di politica cittadina femminista.

Il dibattito politico cittadino degli ultimi mesi, soprattutto a sinistra, ha riportato al pettine, tra i molti nodi irrisolti, anche quello del rapporto tra politica locale e femminismo. Non fosse altro per la sua totale assenza della tematica all’ordine del giorno.
Credo sia innegabile, e sotto gli occhi di tutti, che stiamo assistendo, per lo più, ad una maschia competizione.

Nonostante la diffusa presenza delle donne in molti ambiti della vita pubblica cittadina, e anche della politica nazionale, in un modo inedito nella storia dell’umanità, il panorama cittadino non sembra esserne permeato.
Le donne cambiano il punto di vista, perché possono cambiare l’idea di politica e la partecipazione alla politica locale.

In altre parole: c’è un nesso importante tra queste fratture insanabili, tra la sinistra e il suo popolo e la necessità di ripensare il discorso sulla politica da parte delle donne.

Un fare che è potentemente pubblico, perfino quando accade nelle nostre case. Questo è politica.

“Le donne sono soggetti politici che vengono al mondo con una pratica politica nuova che ha come ragion d’essere la ricerca di libertà tra sé e nel mondo, una libertà non conclusa, ma dinamica, in divenire, volendo mantenere viva e aperta una complessità che diventi paradigma.”

“Dobbiamo certamente cambiare la cultura politica” quante volte ce lo siamo ripetute in tutte le occasioni nelle quali si è discusso e provato a dare una risposta alla domanda sul perché la politica istituzionale è così ostile alle donne.

Credo che la sfida si giochi a questo punto soprattutto a livello locale sulla ricerca attiva di nuovi nessi e risignificazione delle numerose espressioni politiche di base.

Come hanno sottolineato recentemente in un manifesto congiunto le sindache di tre grandi città europee, Ada Colau, Manuela Carmena e Anne Hidalgo (Barcellona, Madrid, Parigi), siamo di fronte a un cambio epocale ed è in queste comunità che si manifesta capacità di cooperazione e innovazione.

Immaginare e desiderare di poter agire politica nella propria vita è un sentimento emergente e diffuso: e una politica viva non può che raccogliere questa sfida.

Imparando dalle donne: è possibile fare la spola tra necessità e libertà, smuove più cose l’autocoscienza del pensiero critico, l’azione più che la reazione, il conflitto relazionale più che la guerra di annientamento del nemico.

Le due sindache, anche di generazioni diverse, ci hanno mostrato un quadro così lontano dagli haters nostrani della rete, posizioni minoritarie che cercavano una soluzione, che forse avrebbe salvato non solo le loro città, la Spagna e forse l’Europa, così lontano dalle fughe rocambolesche dei leader maschili.

Per dirla con le parole di Ada Colau: “Dobbiamo chiederci soprattutto come uscire da questa situazione. È vero che quando ci sono posizioni estreme, esse tendono a generare anticorpi e blocchi contrapposti, in uno schema in cui la maggior parte delle persone non si sente né a suo agio, né riconosciuta, né rappresentata”.

Soprattutto quello che dobbiamo fare, più che entrare in quel linguaggio, è capire come cambiamo quel linguaggio. Per questo insisto: senza che nessuno rinunci alle proprie convinzioni.

Viviamo in un modo di fare politica in cui sembra che fare concessioni, ascoltare l’altro, riformulare le proprie posizioni, introdurre sfumature è vissuto come ambiguità, come equidistanza, come indefinitezza, come codardia.

Ecco, abbassiamo il testosterone, superiamo le dicotomie. Basta guerre tra maschi.

 

VDG