Dal Libano la testimonianza di Marietta Tidei tra i profughi siriani

“Scrivo dal Libano e mi vergogno. Uso questa espressione forte perché è la sola in grado di esprimere quel sentimento di vergogna che ti assale non appena incroci gli sguardi dei bambini siriani negli informal tented settlements nel nord del Paese. Le loro madri hanno poco più di trent’anni, ma ne dimostrano cinquanta. Vergogna per quell’Europa che in tutto questo tempo non è riuscita a trovare un accordo per accogliere in modo condiviso e solidale un numero di profughi pari a quelli che ospita attualmente il Libano. Le donne del campo che hanno voglia di parlare mi raccontano che prima di arrivare in Libano sono state sfollate all’interno della Siria. Hanno cambiato città anche quattro o cinque volte, sempre con la speranza di poter ritornare a casa loro. Me lo conferma Mammoud, che in Siria era un commerciante di sanitari e aveva una bella casa e a Minieh, vicino Tripoli, che vive sotto una tenda di pvc, in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie, insieme a nove persone della sua famiglia. Lui tornerebbe in Siria anche domani se potesse. Si lamenta di non potersi muovere senza permesso di residenza, permesso che non può rinnovare perché costa 200 dollari. Ahmed Alour, un avvocato di 38 anni di Hamah, in una notte ha perso tutto: la sua casa è stata bruciata. È arrivato in Libano il 29 ottobre del 2012. Ricorda perfettamente anche l’ora. Fuggendo non è riuscito a portare con sè neanche l’atto di matrimonio e oggi con due bambini, di 3 e 2 anni, nati in Libano, ha enormi difficoltà anche a registrarli. Oggi Ahmed vive con i 175 dollari mensili che l’Unhcr dà alla sua famiglia. Soldi che bastano appena a pagare l’affitto della stanza in cui vive in un collective shelter di circa 45 persone. Oggi Ahmed prova a sopravvivere facendo qualche giornata di lavoro nei campi o nell’edilizia, sempre al nero, perché chi è registrato per le istituzioni libanesi non può lavorare. Dal 2011 a oggi il Libano, un Paese con poco più di 4 milioni di abitanti, ha accolto più di un milione di siriani registrati dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, che si vanno ad aggiungere a quelli non registrati e ai circa 500mila palestinesi discendenti dai profughi del 1948, arrivati in Libano in seguito alla Naqba. Dal gennaio 2015 il Libano ha introdotto restrizioni all’entrata e in teoria dalla Siria si può arrivare qui solo con determinati tipi di visto. Al reception centre Unhcr di Tripoli, diretto dall’architetta italiana Monica Noro, ci sono tante persone, in gran parte donne e bambini, in attesa del loro numero. Vengono qui per ottenere diversi tipi di assistenza: da quella necessaria al rinnovo dei documenti, all’aggiornamento della loro situazione, alla registrazione dei nuovi nati, procedimento molto complicato. L’organizzazione sembra molto efficiente, soprattutto se si considera che stiamo parlando di un numero elevatissimo di assistiti. In Libano non esistono enormi campi profughi o centri di accoglienza ma insediamenti informali, magari nati vicino ai terreni nei quali i siriani possono lavorare al nero e molti profughi vivono in appartamenti, garage, scantinati oppure dividono case rurali con altre persone. Pia Carmela Paguio, una funzionaria filippina dell’Unhcr, mi racconta le difficoltà che l’agenzia ha nel raggiungere e monitorare i 1785 punti in cui i siriani vengono in qualche modo assistiti. Il governo libanese ha adottato la politica del ‘no camp’, convinto di non voler replicare l’esperienza avuta con i palestinesi: campi profughi che servivano a tamponare un’emergenza temporanea e che invece sono diventate delle vere e proprie città dal ’48 ad oggi. In un Paese in cui il sistema sanitario è in gran parte privato, i rifugiati possono curarsi in strutture convenzionate con l’Unhcr, che garantisce il 75% della copertura delle spese mentre il 25% rimane a carico del paziente. Dalle cure sono escluse le malattie croniche: un rifugiato diabetico, ad esempio, non potrebbe curarsi grazie alla copertura di Unhcr. La dialisi sarebbe completamente a suo carico. Nonostante un quadro legale complesso e il numero imponente di profughi siriani arrivati dall’inizio della guerra, il popolo libanese ha accolto i siriani con generosità. È chiaro che le difficoltà non mancano: una pressione così alta, in termini di profughi entrati in Libano, impatta su tutti i servizi erogati dall’amministrazione, dalla raccolta e smaltimento dei rifiuti, all’assistenza sanitaria, ma le proteste a cui abbiamo assistito in diverse città italiane ed europee, qui non ci sono state. Nel corso del 2015 le Nazioni Unite hanno aggiornato la loro strategia di assistenza al Libano. Questa strategia tende a mitigare gli effetti della crisi umanitaria siriana sul Paese. Il fenomeno non può più rivestire un carattere emergenziale e la strategia deve necessariamente concentrarsi su un processo di stabilizzazione socio-economica del Paese in un’ottica di medio e lungo periodo, in particolare con riferimento alle aree ritenute piu? vulnerabili, come le municipalità libanesi che ospitano la maggior parte dei profughi, caratterizzate da servizi e infrastrutture molto deboli e messe a dura prova in questi cinque anni. È innegabile che anche qui ci siano problemi e tensioni: ho trovato però un atteggiamento ben diverso rispetto alla diffidenza che oggi diversi amministratori hanno, anche in Italia, quando si tratta di accogliere anche solo dieci migranti. Qui municipalità di 2.000 abitanti hanno accolto anche 4.000 siriani. C’è una lezione che il Libano mi sta dando in questi giorni durante i quali ho avuto modo di incontrare persone comuni: l’umanità. Quella del Libano, nei confronti dei profughi, è evidente. Quella dell’Europa dove è finita? Le notizie di queste ore riferiscono di un dietrofront definitivo dell’Austria sul progetto di costruire barriere al Brennero: è un fatto positivo, ma quanto è costato, in termini di credibilità all’Europa, arrivare a questa conclusione? I muri, così come i fili spinati, non possono appartenere al dna di un’Europa che deve riscoprire l’umanità nei confronti di chi sta più indietro, di chi bussa alle proprie porte per sopravvivere. Via mare o via terra che sia, l’approdo dei profughi verso l’Europa non può contemplare porte in faccia. Dal Libano, oggi, vorrei lanciare un segnale di forza, seppure le condizioni di questo Paese sono tutt’altro che facili: riscoprirci umani è un dovere che dobbiamo perseguire. Dobbiamo farlo oggi prima che sia troppo tardi anche se forse tardi, per molti aspetti, lo è già”.

Marietta Tidei – Deputata Pd