“Cervelli in fuga”. Potevo tornare in Italia, ma preferisco vivere in Svizzera

CIVITAVECCHIA – Questa uova puntata di “Cervelli in fuga” ci porta stavolta in Svizzera, per conoscere la storia di Barbara Zoli, 44enne civitavecchiese trasferitasi ormai da 8 anni nel Paese elvetico dove, come ci racconta, ha deciso di restare pur avendo avuto l’opportunità di tornare a vivere e lavorare in Italia.

 Da quanto tempo ti sei trasferita? Perché hai deciso di lasciare l’Italia e dove vivi attualmente? 

“A gennaio 2009 io e mio marito eravamo insoddisfatti della vita in Italia da vari punti di vista. In particolare per il suo lavoro da ricercatore, precario e con prospettive vaghe; e il mio ruolo di mamma in carriera e il lavoro in proprio, che, pur essendo una buona fonte di reddito, si svolgeva senza limiti, senza garanzie e con mille difficoltà organizzative. Così abbiamo visto l’opportunità che si presentava in Argovia, una regione della Svizzera tedesca tra Zurigo e Basilea, come una esperienza da fare, anche solo per creare una pausa di riflessione che ci aiutasse a vedere meglio le cose. A dicembre 2009 mio marito ha iniziato a lavorare e ad aprile del 2010 io e mio figlio lo abbiamo raggiunto in modo definitivo. In un anno ho organizzato la chiusura del mio lavoro, ho lasciato il mio posto di docente all’Università Europea di Roma, i miei studi di Civitavecchia, Ladispoli e Roma, dove facevo psicoterapia e il mio ruolo di Consulente Tecnico d’Ufficio che svolgevo per il Tribunale di Civitavecchia”.

Qual è stata la tua formazione e quali esperienze lavorative hai accumulato?

“Ho studiato Psicologia dello sviluppo e dell’Educazione alla Sapienza di Roma, Psicoterapia cognitivo-comportamentale all’Istituto Skinner di Roma, Mediazione Familiare all’Istituto Irmef di Roma. Per la laurea mi sono avvicinata all’ambito della valutazione delle famiglie separate. Quasi contemporaneamente ho iniziato a lavorare a Roma nella devianza minorile, (da questa esperienza abbiamo portato a Civitavecchia un progetto per borse di lavoro con tutor per adolescenti a rischio, che ancora prosegue). Dal 1998 mi sono avvicinata alla neuropsicologia, a partire da un tirocinio al Bambin Gesù e a un anno di collaborazione con il reparto di neuropsichiatria infantile. La neuropsicologia è molto vicina alla mia passione per il tema ‘apprendimento’, che e un filo rosso della mia formazione ed esperienza lavorativa. Nel 1999 ho iniziato a lavorare negli studi, a fare psicoterapia e training cognitivi per i disturbi dell’apprendimento e comportamentali. Sono molti ambiti, ma in Italia non è facile dedicarti solo a una cosa, ovviamente per un problema di retribuzione. Molti si aspettano che un giovane laureato in psicologia lavori gratis o quasi”.

Di cosa ti occupi attualmente?

“I primi anni ho fatto principalmente la mamma, è arrivato il secondo bambino e ho iniziato a studiare, non intensamente, tedesco. Contemporaneamente, insieme a una collega, ho pubblicato due libri, uno con la Franco Angeli e uno con la Giuffrè, di psicologia giuridica e criminologia. Negli ultimi anni ho portato avanti le pratiche per il riconoscimento dei titoli, necessario poiché la Svizzera non fa parte dell’Unione europea. Ho studiato tedesco con più costanza e ho cercato di integrarmi, con tutto l’impegno che comporta. Attualmente, tutto da pochi mesi, lavoro in due studi, uno a Baden come libera professionista e uno ad Aarau, dove ho un contratto con una pediatra. Svolgo per il secondo anno corsi per genitori nella Missione Cattolica italiana di Wohlen e Lenzburg. Con la Caritas e il Femmes Tisch ho un contratto per un progetto di integrazione e sono nel consiglio direttivo dell’associazione professionale del mio cantone”.

Quali differenze hai riscontrato, a livello di servizi e di qualità della vita, tra l’Italia e la Svizzera? E a livello lavorativo e contrattuale?

“E’ scontato dirlo, per chi viene dall’Italia i servizi in Svizzera sembrano un paradiso, le persone sono cordiali e professionali, tutto è facile e chiaro, organizzato in modo da non farti perdere tempo. Molte cose si fanno via posta e non c’è molto da fare file o spostarsi. Dal medico zero fila, ti dicono la durata e puoi programmare tranquillamente qualcosa subito dopo. A me sembra che la persona, al di là di come si chiama, sia più rispettata e anche il suo lavoro ha un alto valore, ovviamente ben retribuito. La qualità della vita è alta perché le cose che compri sono di qualità; perché i mezzi di trasporto sono una favola; perché hai la possibilità di andare in bicicletta e a piedi senza rischiare la vita; perché, se passeggi nel bosco (ci sono ovunque parchi e i boschi, io ne ho uno sotto casa), trovi tavoli e grill e spesso anche la legna pronta per grigliare; perché impari ad essere responsabile dell’immondizia che produci, che ritirano solo una volta a settimana (con grande risparmio economico per tutti); perché ti mandano a casa regolarmente e continuamente comunicazioni su come vengono spesi i soldi nel tuo comune e come hanno pensato di ottimizzare spese e servizi”.

È stato facile ambientarti e come lo hai fatto?

“No, nonostante tutto non è stato facile ambientarmi. Credo che nessuno possa dire che andare in un paese straniero sia facile, nonostante alla fine il bilancio sia positivo. Ho avuto difficoltà soprattutto perché non ero sola e ci sono state alcune complicazioni per il mio primo bambino da affrontare. Inoltre la Svizzera è un posto molto diverso dal punto di vista culturale ed educativo e alcune cose vanno conosciute e capite piano piano nella vita di tutti i giorni. Il tedesco, poi, non e’ una lingua semplice e immediata. Io ho cercato di rimanere sempre aperta, di non chiudermi, di rimanere curiosa e provare a fare le cose anche in modo diverso, sentendomi libera di rimanere quella che ero, fiera delle mie radici e nello stesso tempo di cogliere le occasioni di cambiare e migliorarmi”.

In tutta Europa c’è una sempre più diffusa insofferenza nei confronti degli immigrati. Percepisci anche in Svizzera questo clima di crescente ostilità? E qual è attualmente la considerazione degli elvetici nei confronti degli italiani che vivono nel loro Paese?

“Gli svizzeri sono tradizionalmente chiusi, amano l’ordine e la pulizia e non amano i cambiamenti. Nonostante ciò hanno vissuto da almeno 40 anni un’intensa immigrazione, soprattutto dall’Italia, e ne hanno potuto apprezzare anche i vantaggi; la loro economia si è accresciuta parallelamente in questi anni. Gli italiani sono generalmente gli immigrati più conosciuti e apprezzati, considerati vicini, a volte più vicini degli immigrati tedeschi, considerati troppo bruschi e diretti. Molti svizzeri amano viaggiare, hanno trascorso anni all’estero, sono imparentati con persone di altre culture, parlano molte lingue e studiano continuamente lingue straniere, anche da pensionati. Ovviamente, ma questo vale ovunque, è importante mantenere un comportamento attento, corretto e ad alto il livello di educazione e assertività”.

Torni spesso a casa? E che idea ti sei fatta dell’Italia e di Civitavecchia quando la rivedi?

“Sempre meno, ora due volte all’anno. I miei genitori trovano la forza di venire (hanno più di 80 anni) e trascorrono alcune settimane da me un paio di volte all’anno. Civitavecchia è bellissima se guardi il cielo azzurro (magari non in direzione della ciminiera), se mangi al ristorante, se vai al mercato, se parli con i negozianti dei pochi negozi rimasti, se passeggi nei pochi spazi del centro storico, e poi se la guardi ‘in potenza’. Più difficile e frustrante diventa se la vivi con i bambini, se vuoi portare i bimbi al parco, se vuoi uscire a piedi o in bicicletta, se la vuoi vivere al di là dei centri commerciali”.

I “cervelli” italiani sono davvero destinati a fuggire? 

“Mi sembra che ci sia un grosso cambiamento mentale da fare, oltre che molte risorse economiche da investire”.

Hai in programma di tornare prima o poi a lavorare in Italia oppure la tua vita ormai è lontana da qui?

“Era la nostra idea iniziale. Qualche tempo fa ci si è prospettata una possibilità di ritornare. Ci abbiamo pensato e abbiamo deciso di no. Non abbiamo escluso niente per il futuro”.

Perché avete rifiutato questa possibilità e avete deciso di restare in Svizzera?

“Ci sono varie ragioni, alcune riguardano aspetti psico-sociali e culturali, abitudini e tendenze comportamentali, che non riguardano tutti, ma che si ripercuotono continuamente nella vita di tutti i giorni. Personalmente trovo che ci sono molte cose piacevoli in Italia, che funzionano nonostante tutto, come la scuola. Le persone sono spontanee nelle interazioni, emotive e tendenzialmente ironiche e questo ha molti vantaggi sull’atmosfera di tutti i giorni. Trovo però che una percentuale di italiani, pochi, sicuramente meno della metà, si comporti con gli altri con superficialità, o, peggio, con aggressività, prepotenza, invadenza ed egoismo e questo cambia le cose anche per tutti gli altri. Anche gli altri non hanno scelta e troppo spesso devono lottare per cose normali, piccole e grandi, come il posto in fila, il parcheggio, oppure un qualsiasi sacrosanto diritto, una prestazione in ospedale, un posto di lavoro. E se non riesci, se stai in difficoltà, vai da qualcuno che ha più potere e cerchi aiuto. In Italia sei portato a pensare alle tue cose, come a passare per primo, alla tua casa, magari ad avere qualcosa di  bello e prezioso e non pensi quasi mai al bene comune, che sembra troppo distante, non controllabile dal normale cittadino. Ovviamente se anche un politico o un amministratore pubblico è portato a comportarsi così sono guai. Ho sempre vissuto con sofferenza questa parte dell’Italia. Non mi vedo lontano, non sono lontana, mi vedo ‘nel mondo’, attiva nell’educazione dei miei figli, nella comunità. Spero di dare ai miei figli l’opportunità di occupare un posto nel mondo in modo sereno e soddisfacente, ‘per ora’ qui in Argovia”.

 

Marco Galice