CIVITAVECCHIA – A tramonto dell’Enel ormai iniziato – a proposito, speriamo che il Governo non allunghi i tempi e faccia rispettare la scadenza dettata da Gentiloni “No al carbone entro il 2024” – il porto si avvia sempre di più a ricoprire il suo ruolo di fabbrica attorno alla quale far crescere e prosperare le Comunità del territorio.
Lunga però la strada da percorrere. Peccato che vada percorsa assai rapidamente: da una parte c’è una città che ha sempre vissuto il suo porto come una cosa a sé, un mondo ricco di tipo hollywoodiano.
Se leggete certe cronache che riguardano lo scalo, assomigliano di più a romanzetti rosa e raccontini di gossip piuttosto che provare ad essere la rappresentazione della vita di una fabbrica all’interno della quale vivono storie di uomini e di donne, ma anche complessi processi produttivi da analizzare, tempi e regole da rispettare, ma soprattutto c’è una competitività con la quale fare i conti tutti i giorni.
La cosiddetta “guerra delle banchine” piuttosto che “delle gru” testimonia che è proprio la pressione competitiva a mettere oggi lo scalo alla prova.
Accade così un po’ in tutta Europa. Qui da noi, la riforma Del Rio stenta a trovare un’interpretazione corretta e moderna.
Intendiamoci subito: non sono tra quelli che vorrebbe abolire gli articoli 16 e 18 che in qualche maniera delimitano il perimetro delle aziende autorizzate a lavorare nel porto ad una trentina di imprese.
Ma una cosa è mantenere in piedi una norma, soprattutto ai fini della sicurezza sul lavoro per evitare di veder uscire dalla stiva i nuovi schiavi addetti alle operazioni di scarico, una cosa è considerarla come un ombrellone sotto il quale non piove mai e c’è ombra quando fuori batte il sole.
Bene, i fatti dimostrano che nei tempi attuali può piovere anche dove non aveva mai piovuto, ovvero l’ombrellone non basta più.
Quindi, non resta che cominciare a fare i conti con quella che si chiama pressione competitiva e che è esattamente una delle correnti di energia che mandano avanti l’industria moderna.
Ma, guarda un po’ il caso, quando si comincia a parlare di numeri, di processi industriali, di efficienza, di skill, il primo a vacillare è il castello dei privilegiati. Il privilegio di chi percepisce stipendi annuali a cinque zeri, per fare il manager finto, in quanto la sua impresa non è un’impresa, lavora su un mercato , con tariffe predeterminate, non investe e non produce direttamente e magari non ha nemmeno vinto uno straccio di gara.
La storia insegna…. che alla fine vince è la storia e che contro il progresso non ci si va.
Ma sarà dura, anche perché il privilegio è terreno di consensi. Insomma roba che fa gola alla politica che anche al Porto deve scegliere da che parte stare: da una parte la clientela sapientemente coltivata dai privilegi e dalle prebende, dall’altra la competizione, che vuol dire occupazione, sviluppo, creazione di valore e di benessere diffuso.
Fabio Angeloni – Resp. Economia Pd Provincia di Roma