“Grandangolo”. Chi è quello straniero che ci fa tanta paura

CIVITAVECCHIA – Non sono ancora spenti gli echi della fiaccolata contro il razzismo che ha visto lunedì sera tanta partecipazione tra studenti, sindacati, associazioni, movimenti e partiti politici di centrosinistra, anche a semplici cittadini, che abbiamo pensato di affrontare nella nostra rubrica settimanale lo scottante tema dell’immigrazione, oggetto di forti contrasti fra le forze politiche e nella società civile. Esistono, infatti, anche a Civitavecchia movimenti legati all’estrema destra che, facendo leva sulle paure della gente e sulla grave crisi economica che sta investendo il nostro Paese, si stanno battendo contro l’accoglienza agli immigrati.
Ma cos’è che fa tanta paura? In una parola lo straniero che viene stigmatizzato come il portatore di verità, principi e valori estranei alla realtà di turno e proprio per questo da espellere, non accogliere, negarne l’esistenza. Tuttavia c’è anche chi non è ostile allo straniero, ma sa invece tendere una mano a chi ne ha veramente bisogno, come l’Arci di Civitavecchia, una associazione fortemente impegnata nel sociale e in particolare nel campo dell’immigrazione.
Il Presidente, Roberto Sansolini che abbiamo avuto il piacere di intervistare, spiega che “da diversi anni l’Associazione partecipa ai progetti SPRAR per i richiedenti asilo per conto del Comune di Santa Marinella, proponendo un modello di accoglienza opposta a quello della Caserma De Carolis: un’accoglienza di tipo poliziesco che costringe i rifugiati a fare una vita isolata e recintata rispetto al territorio”. In cosa consiste questo progetto? “Siamo gestori del progetto SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), al quale il Comune di Civitavecchia nel 2001 non ha voluto aderire, un sistema di accoglienza in cui viene privilegiata la diffusione delle persone sul territorio. I rifugiati infatti vengono ospitati in appartamenti e l’inserimento nel tessuto sociale è seguito passo passo da specifiche figure professionali come lo psicologo, l’educatore, il legale oltre a generici operatori. Dal 2010 ad oggi aderendo a questo progetto è stato possibile accogliere e aiutare decine di persone tra nuclei familiari e singoli individui”.
Ed è proprio grazie all’Arci che abbiamo la possibilità di conoscere B. un uomo di 43 anni proveniente dal Senegal che vive in Italia da almeno dieci anni e che già da tempo fa parte del progetto SPRAR, al quale rivolgiamo qualche domanda per capire meglio le ragioni di chi, sfidando la sorte, ha superato innumerevoli difficoltà, rischiando anche la vita, per venire a vivere tra noi.
B. ci spiega che per motivi personali preferisce non rivelare il suo vero nome. Circa dieci anni fa è arrivato in Italia con grandi sogni e magiche illusioni sulla società italiana e la realtà occidentale. Il suo mestiere, tramandato da innumerevoli generazioni, è il cantante di musica africana e il compositore di musiche per teatro e concerti. Alla domanda su come vive in Italia, B. risponde “un po’ bene e un po’ male perché in questo Paese non si può vivere senza soldi. In Africa invece si, perché la pratica dello scambio e della solidarietà sono parte integrante dell’essere africano, ancora oggi. Si tratta di valori perduti in Occidente perché qui conta solo il consumismo che brucia la solidarietà e la spiritualità, rovinando i rapporti tra le diverse etnie, culture e i popoli. Senza soldi si muore e la solitudine uccide le persone”.
Perché allora sei ancora in Italia? “Per destino” è la sua prima risposta. Poi aggiunge: “E per cantare. Sento la necessità di fare da mediatore tra la parte africana e italiana, di far capire al popolo africano il popolo bianco, cosa possiamo imparare da loro e viceversa, per trasmetterci i valori e le conoscenze attraverso il dialogo e comprendere a fondo le altrui diversità. Per realizzare tutto questo mi servo del teatro, della musica e del cinema. Ho lavorato ad alcuni film con il tema dell’Africa e anche con Ennio Morricone”.
Qual è la ragione per cui tanti africani si sono spinti in Italia e in Occidente rischiando spesso la vita? “Il consumismo e il benessere hanno abbagliato tanti giovani africani – ci risponde – In Africa, in un quartiere, ci sono quattro macchine al massimo, qui ce ne sono almeno due a famiglia. Con la globalizzazione e internet anche un giovane africano che vive in un villaggio può vedere il mondo occidentale e farsi un’idea falsata: macchine, cibo e soldi. Mio nonno ha vissuto oltre cento anni e non è un’eccezione lì, perché non aveva stress, viveva in equilibrio con i ritmi della natura e in estrema semplicità”.
Quindi pensi che la globalizzazione sia responsabile della fuga dall’Africa di tanti giovani? “Sì, la gioventù è stata fuorviata da tutto questo apparente benessere.” Cosa possiamo fare oggi? “Noi africani dobbiamo avere il coraggio di tornare, per parlare ai giovani e rivalutare i valori della cultura africana. Il problema vero sta nel fatto che i giovani vengono formati nelle scuole inglesi e francesi che trasmettono invece cultura e valori diversi da quelle di appartenenza”.
Dalle parole di B. sentiamo riporre grande speranza nelle nuove generazioni e un grande desiderio di cambiare l’umanità, impegnandosi su due diversi fronti: quello africano e occidentale. B. sostiene, infatti, che anche l’atteggiamento occidentale deve cambiare rispetto ai popoli africani perché “ci vedono solo come poveri e invece non lo siamo: ci sono tante potenzialità che devono esprimersi, crescere per divenire finalmente autonome, portatrici di progetti di vita nel pieno rispetto dell’essere africano. Inoltre, fino ad oggi non si è tenuto conto delle diversità culturali. Anche nei media vi è una sola informazione e non c’è spazio per la cultura africana”.
Proprio per dare voce a chi fatica a farsi largo in questa società e per far conoscere le diverse realtà appartenenti al mondo africano, B. ci ha annunciato la realizzazione a breve di un progetto teatrale a Civitavecchia presso la Sala Gasmann, con il preciso intento di raccontare agli italiani le loro realtà: le origini, le storie di sopravvissuti, le guerre da cui fuggono e anche, e perché no, i loro sogni.