La fotografia vera protagonista al S. Marinella Film Festival

s. marinella film festivalSANTA MARINELLA – Cinema di alto livello venerdì sera al Santa Marinella Film Festival. Eccellenti le due pellicole in programma, “La prima notte della luna” di Massimo Guglielmi e “La misura del confine” di Andrea Papini. A rapire la platea è stata senz’altro l’elevatissima qualità della fotografia. I paesaggi, cittadini nella prima opera e naturalistici nella seconda, hanno dominato la serata facendo sognare i presenti. Massimo Guglielmi nella sua produzione internazionale che ha visto la cooperazione di ben quattro nazioni (Italia, Svizzera, Polonia e Russia), ha dato vita al racconto “La prima notte della luna” della criminologa Cinzia Tani, ambientato tra la Russia e l’America della fine degli anni ’60, durante la “corsa allo spazio” delle due superpotenze. Ma il contesto storico-politico che fa capolino ogni tanto durante lo svolgimento del film e che forse avrebbe meritato un po’ più di consistenza e corposità, sembra in realtà solo fare da sfondo alle vicende sentimentali della protagonista, giovane donna russa emancipata con un grande sogno che coltiva fin da bambina, diventare una cosmonauta. Ben presto dovrà però fare i conti con la realtà, l’abbandono, i ricatti, le delusioni, la sofferenza. Con il passare dei minuti non si può che partecipare alla presa di consapevolezza della ragazza di cosa sia l’amore, la famiglia, il lavoro, la dignità, il compromesso, l’amore per la propria terra e una coerenza esistenziale che la porterà ad accettare la sua morte con serena rassegnazione. La lunghissima gestazione del film, durata cinque anni, sembra ripresa dai tempi lunghi della storia, dalle pause, dai pochi e concisi dialoghi. Quasi che i volti, i vestiti, gli oggetti e soprattutto i paesaggi parlassero da soli. Un’ottima pellicola di ampio respiro, dal ritmo lento e meditativo e dai toni cupi anche nei momenti di apparente serenità. “Non possiamo rinunciare ai sogni, non alla nostra età”, la frase che anima l’inquietudine della protagonista si scontra ben presto con il crudo principio che muove le cose:  “C’è sempre un prezzo da pagare”. Ed è proprio quello che succede nella pellicola: ogni azione svolta, ogni amore vissuto, ogni gesto fatto, sono volti alla conquista di qualcosa che comporta la perdita di qualcos’altro, e ogni volta pare ricominciare da capo a lottare per un motivo sempre più importante di quello per cui ha lasciato tutto, un circolo vizioso da cui uscirà solo rinunciando alla vita stessa: “Tutti abbiamo un sogno, finché non te lo portano via”. Una pellicola che tocca tutti i sentimenti umani, un affresco di un’epoca che al suo interno presenta un ritratto femminile ben riuscito e strutturato che ricorda gli elementi classici della tradizione letteraria russa, da Fëdor Dostoevskij ad “Anna Karenina” di Lev Tolstoj, passando per il clima cupo di sospetto de “Il maestro e Margherita” di  Michail Bulgakov.
Di tutt’altro respiro è invece il secondo film in programma, “La misura del confine”, in cui il regista Andrea Papini ha potuto contare su uno scenario mozzafiato. Girato in due settimane a tremila metri di altitudine sul Monte Rosa, può vantare inquadrature da far girare la testa. La maestosità e la bellezza dei panorami accoglie le vicissitudini di due topografi, uno italiano e uno svizzero, chiamati per ristabilire i confini andati perduti tra i due stati al fine di definire a chi appartenga la mummia ritrovata sul ghiacciaio dal sindaco del paesino italiano, che spera così di ravvivare il turismo. Iniziato come il classico film sulla maledizione della mummia, presenta inquadrature degne dei migliori film horror anni ’70-’80 e meraviglia il pubblico per simpatia e originalità. La mummia però nasconde il segreto di un delitto in realtà non troppo lontano nel tempo a cui tutti i protagonisti, in un modo o nell’altro, sono collegati. Giovane, scorrevole, estremamente piacevole, “Come un film fatto per gioco a venti anni, questo è stato fatto a cinquanta con un po’ più di esperienza”, commenta cogliendone lo spirito il regista. Con ironia e intelligenza Papini è riuscito a creare un film molto ben riuscito mescolando le storie che sentiva da ragazzo nel paesino di montagna in cui viveva, dando vita al tema locale che punta all’universale, generalizzando e universalizzando le leggende che tutti i paesi di montagna nascondono e allo stesso tempo dipingendo, con i dieci personaggi fortemente caratterizzati, uno spaccato dell’Italia contemporanea pressapochista e lasciva di cui ci lamentiamo ma che in fondo tutti amiamo perché oltre a mangiare, bere, cantare e sparlare, a volte sa ritrovare quella sacralità perduta che la responsabilità di millenni di storia non ci ha mai fatto abbandonare. Come nel finale della pellicola, quando le guide scendono a valle canticchiando e giocando con la mummia e all’improvviso fanno calare il silenzio, accendono le candele e danno degno rispetto al morto che hanno in spalla intonando una canzone sepolcrale in dialetto Walser da far venire la pelle d’oca al pubblico, rendendo la situazione terribilmente seria, come solo la montagna sa essere.

Francesca Ivol