Siamo in un Cul de sac

porto cittàIl sempre più incandescente dibattito sul futuro assetto istituzionale di Civitavecchia sta palesando purtroppo gli atavici limiti della politica cittadina, incapace spesso di ragionare svincolata da pregiudizi e limiti ideologici. Forse è per questo che, con una brusca accelerazione, la discussione su Area Metropolitana o Provincia dell’Etruria sta lentamente degenerando su contrapposizioni e personalismi, talvolta isterismi, che poco di buono possono portare a questa città. C’è la sensazione, infatti, che l’antitideismo da una parte, l’antipiddiellismo dall’altra, stiano cristallizzando a priori delle posizioni che poco o nulla ragionano ormai nel merito del problema.
Sforzandosi di essere obiettivi, le ragioni addotte dall’una e dall’altra fazione trovano in realtà ragion d’essere. Non ha torto chi ritiene che solamente l’ingresso nell’Area Metropolitana, in virtù delle competenze di gestione e programmazione del territorio che verranno garantite a dispetto delle macroprovince, le quali delegheranno buona parte delle loro funzioni alla Regione, può garantire margini di sviluppo al territorio; questo a prescindere dal fatto che, sia con Roma che con Viterbo, il porto cittadino rimarrà sempre e comunque la principale porta d’accesso sul mare per la Capitale. E non ha torto chi, pur riconoscendo l’identità culturale che comunque lega Civitavecchia e il suo hinterland all’Etruria, contesta la disorganicità infrastrutturale di questa provincia in itinere, al momento collegata al suo interno solamente da due strade provinciali.
Ma ha piena fondatezza anche la convinzione che, come accaduto da sempre dal Dopoguerra ad oggi, Civitavecchia è una città assolutamente incapace, per colpa della sua classe politica, di far valere il proprio peso decisionale all’interno della provincia romana e dell’Area metropolitana. I destini di questa città, le scelte dirimenti per il suo futuro, vedasi centrale a carbone, si sono sempre consumati nei palazzi romani senza alcuna minima incidenza degli umori e degli orientamenti dei civitavecchiesi. Insomma, per dirla in parole spicciole, Civitavecchia non ha mai contato nulla nelle decisioni calate dalla Capitale. Non è riuscita a contare nemmeno in pieno Ventennio, figurarsi, quando nel 1929 Benito Mussolini, con il riordino delle circoscrizioni provinciali, istituì la Provincia di Viterbo e non, guarda caso, quella di Civitavecchia.
Nella ridda di commenti e prese di posizione di questi giorni l’unico a centrare il nodo centrale della questione è stato forse il Segretario generale della Cgil Cesare Caiazza: discutere se stare con Roma o Viterbo è probabilmente infruttuoso e limitativo finché il Governo proseguirà la strada dei tagli agli enti locali che, dal 2003 ad oggi, vale la pena ricordarlo, tra una sforbiciata e l’altra sono arrivati a circa 30 miliardi di euro. Senza fondi, e con ulteriori tagli, non ci sarà sviluppo e sopravvivenza in nessun caso.
Ed il nodo è tutto qui. L’essere vincolati ad una classe politica, a tutti i livelli istituzionali, che ormai ha dimostrato chiaramente di aver fallito e di non essere in grado di rimettere in sesto questo Paese, perché lontana anni luce dai problemi quotidiani della gente. Le cronache che ci giungono in questi giorni dalla Regione ne sono imbarazzante conferma. Il referendum che da più parti si invoca è scelta legittima e sacrosanta, perché il popolo deve essere sempre artefice del proprio destino senza delegare a pochi intimi le scelte sul proprio futuro. Ma fin quando il popolo non si deciderà a cambiare la sua classe politica e il suo modo di vivere, uscendo da questo drammatico menefreghismo individuale, impegnandosi in prima persona per le sorti di questo Paese, anche uno strumento di partecipazione popolare meraviglioso come il referendum è destinato a fallire. Bisogna ammetterlo: ora come ora, purtroppo, siamo in un Cul de sac.

Marco Galice